Stand By Me

elenco_182858C’è chi cammina in punta dei piedi per non provocare reazioni, c’è chi reagisce con aggressività. C’è chi non vuole vedere.
C’è che stare vicino a chi ha un Disturbo dell’Alimentazione, da genitore, compagno, parente, amico è una esperienza di impotenza, frustrazione e disorientamento.

“Come fai a non vedere che ti stai ammazzando?”, “Ma se non ti manca nulla perché ti fai del male da sola, perché crei un problema che non esiste?”, “Pensa a chi sta male davvero e non vuole morire…”.
Parole dettate dall’urgenza, dalla paura, dalla rabbia che nasce con la sensazione che la situazione  scivoli di mano come sabbia, inesorabilmente.
Parole dettate dal dolore, ma è al dolore del paziente che bisogna lasciar spazio.

Guarire da un Disturbo dell’Alimentazione vuol dire uscire da un luogo sicuro ed entrare in un altro, in cui non c’è più la stessa possibilità di controllo, con una grossa ferita scoperta; è come vagare senza pelle: espone al dolore.
La parte dolente è l’accettazione di un aumento di peso, che sia necessario e attivamente cercato come nel caso dell’anoressia, o conseguenza della soppressione di un comportamento compenso come il vomito, in caso di bulimia; è la paura di allentare il controllo sul proprio corpo; il dolore è tornare a confrontarsi con tutto quello che il disturbo anestetizzava, da una situazione interpersonale difficile a una difficoltà nel gestire stati emotivi troppo intensi.
Anche le parole più innocue fanno male perché piombano su dolori pulsanti: “Stai meglio con due chili in più”, “Finalmente hai un po’ di carne addosso”, “Per forza non hai fame a cena,  se mangi in continuazione tutto il pomeriggio”. E non serve usare il buonsenso per sceglierle:  la razionalità non aiuta, fa male, non dà dignità alla sofferenza;  è come dire “Non dovrebbe esistere questo male, c’è perché lo vuoi, non è una malattia fisica, smettila!”.

Non si aiuta una persona prestandole dei pensieri che non sentirà mai propri, facendole vedere qualcosa che non vedrà mai, dando delle soluzioni logiche, sintomatiche: “Vai a fare qualcosa di divertente invece di mangiare”, “Ti ho preparato il tuo piatto preferito così non mi dici di no”.
Questo crea frustrazione e aggressività in chi cerca senza successo una reazione positiva, frattura,  solitudine nel paziente. E chi si sente solo in un dolore si chiude, e il rischio è di rintanarsi nuovamente nei confini del Disturbo, in grado di dare quella stupenda capacità di bastare a se stessi, intenti nella pratica di  comportamenti disfunzionali (restrizione, abbuffata, vomito, esercizio fisico compulsivo, etc…).

Chi sta vicino a una persona che ha un Disturbo Alimentare dovrebbe imparare a vedere con gli occhi della malattia, a partire dal problema così come viene percepito: sentire la paura di ingrassare, la disperazione del non controllo, l’ansia immensa di affrontare un pasto normale, a tavola, con gli altri, la visione distorta del corpo, la percezione fallace, ma vivida, di una dilatazione dei propri volumi ogni qual volta la mente sentenzia “Hai mangiato troppo”.

Aiuta sospendere il giudizio, non solo quello a parole, ma anche quello formulato internamente: non aiuta a capire.
Aiuta ascoltare, all’infinito sempre le stesse paure, perché è così che aleggiano nella mente di chi sta male: ossessivamente; aiuta ascoltare attivamente, ponendo domande che denotino interesse per quell’universo mentale: bisogna competere con il conforto dato dai comportamenti disfunzionali del Disturbo, diventare parte di un luogo sicuro alternativo in cui rifugiarsi nella difficoltà.
Aiuta farsi insegnare da un esperto il linguaggio adatto alla comunicazione, attento alle sfumature, funzionale alla terapia, affinché le migliori intenzioni non si infrangano su una chiusura repentina.
Aiuta agevolare silenziosamente l’attuazione della terapia in atto – sì, la do per scontata la terapia, si ha bisogno dell’aiuto di un esperto – per quel che concerne la preparazione del pasto o la pratica di altre direttive.

Non è guardando oltre la malattia che si aiuta a superarla, non è pensando che dopo il primo passo che si realizza debba necessariamente seguire il secondo, con tempo cadenzato, regolare, prevedibile, tranquillizzante.
Come per tutte le brutte ferite, ci vuole il tempo necessario.

“Un paradosso del Dolore concerne la mancanza di una chiara rappresentazione corticale [Rainville 2002]. Gli stimoli Dolorosi spesso attivano aree della corteccia, ma le zone di attivazione variano da uno studio all’altro [Apkarian 1995].
Gli stimoli Dolorosi provocano spesso delle risposte nelle aree SI e SII. La rimozone di SI e SII nell’uomo, tuttavia, non si associa a nessuna modificazione della soglia del dolore.” (John P.J.Pinel)

Nasce e muore, e nemmeno la scienza sa dove.

 

 

foto: quadro di Ryan Mendoza