Il boccone perfetto – Racconto di una giovane paziente affetta da anoressia nervosa

Riconoscere di avere un problema non è stato facile per me: sono dovuta uscire da me stessa, guardarmi dall’esterno, analizzare la situazione e poi rientrare in me e scavare, scavare e scavare fino a quando non ho trovato la radice del problema per poi lavorare con costanza e fatica su di essa.

Essendo affetta da anoressia, questo processo è stato molto complicato perché la mia coscienza era stata sostituita da pensieri disturbanti, che mi hanno avvelenato la mente e hanno reso difficile riconoscere le azioni malate. Il disturbo era diventato una sorta di protezione dalla vita vera, ma era in realtà una gabbia che aveva una doppia funzione: tenermi rinchiusa e chiudere fuori chi voleva aiutarmi.

Questa cella è stata impossibile da smantellare finché non ho ricominciato ad avere fiducia. Il disturbo mi ha fatto credere di potermi fidare solo di me stessa: questo mi ha fatta sentire potente, invincibile. Il controllo ossessivo che avevo sul cibo mi faceva sentire estremamente forte. Ma se per qualche motivo, per un momento, perdevo quel finto controllo che credevo di esercitare su tutta la mia vita, andavo completamente in crisi. Ed è così che ho capito che in realtà la fiducia non era in me stessa, ma nel disturbo. Quando accadeva qualcosa fuori dai piani, mi sentivo quasi tradita da quella vocina che mi risuonava in testa, quella che mi ripeteva che, per stare bene, dovevo essere perfetta, che dovevo fare tutto al massimo, che non potevo sbagliare nulla o che non potevo permettermi di mangiare ciò che mi piaceva.

Sembrava più semplice avere fiducia nella malattia che nelle altre persone: la prima era parte di me ormai, mentre le altre persone non mi capivano e potevano sbagliare, deludermi, ferirmi. Quando ero nel disturbo, mi affidavo alla falsa promessa del raggiungimento di una perfezione inesistente.

Ricordo che anche il semplice mettere in bocca il cibo era diventato un rituale con delle regole molto rigide, che non potevano essere trasgredite: volevo creare il “boccone perfetto”, in cui c’era una quantità equivalente di verdura, di pane e della fonte proteica del pasto. Creare questo miscuglio di cose mi serviva ad allungare il tempo del pasto, sentendomi meno ingorda, a mescolare i sapori in modo da non sentirne nessuno e di conseguenza a non distinguere il gusto delle cose che mi piacevano e ad avere l’illusione che, inghiottendo un boccone “equilibrato”, il cibo avrebbe avuto un potere meno “ingrassante”. Questo “boccone perfetto” era in realtà una modalità che io avevo per mantenere il controllo ed era un principio che cercavo di applicare anche alle altre cose che facevo. Ho però capito che è impossibile creare un “boccone di vita perfetto”, perché essa mi sorprenderà sempre, facendomi scoprire nuovi sapori, a volte anche amari e difficili da inghiottire. Questo però, quando ero all’interno del disturbo, era difficile da capire, perché avevo perso il contatto con l’esistenza, ed è qui che sono entrate in gioco le persone che mi stavano (e mi stanno vicine): hanno iniziato a farmi ricucire i rapporti con la realtà.

Per questo, quando ho preso la decisione di provare ad uscire dall’anoressia, ho dovuto reimparare ad avere fiducia, prima negli altri e poi in me stessa. Le persone che mi volevano bene e si preoccupavano per me non erano i “cattivi” che mi volevano far ingrassare a dismisura, rendendomi orribile e imperfetta, ma erano degli importanti appigli per uscire dal burrone in cui ero caduta e per ritornare a vedere la luce della vita vera.

Ho imparato che le persone che mi volevano bene non erano contro di me, ma con me. Erano lo specchio che mi dava di rimando il riflesso della realtà. I miei occhi erano ormai troppo offuscati dalla malattia perché potessi rendermi conto di ciò che non andava: quello che facevo a me sembrava giusto, era la normalità, quando in realtà mi stavo solo facendo del male. Io vedevo tutto grigio, piatto, mentre il resto delle persone mi diceva che in realtà il mondo è a colori. Ho dovuto a imparare a fidarmi degli occhi degli altri, perché i miei non ci vedevano bene. Ho dovuto mettermi nelle mani delle esperte, della mia famiglia, di alcuni amici. Anche se all’inizio non capivo, erano lì per me, per darmi un sostegno, ma non per sostituirmi nel mio percorso: la strada era la mia, dovevo decidere io in prima persona di percorrerla, perché se non avevo la volontà di farlo, non era possibile guarire. Le persone che mi sono state vicine mi hanno mostrato ciò che potevo ottenere lottando: il sorriso, la gioia, le soddisfazioni, la vita.

Decidere di intraprendere una terapia è stato difficile e faticoso, ma mi ha permesso di avere degli strumenti per riconoscere e fronteggiare i pensieri malati quando arrivano e giungere, passo dopo passo, con cadute, fatica e dolore, a una grande consapevolezza di me stessa e alla costruzione di un’identità personale che non è legata alla malattia, ma che è profondamente mia.

Ritornare a vivere nel mondo per me non è stato facile. Ho dovuto imparare a non fare confronti, a non dare peso ad alcuni discorsi incentrati sul peso e sulla forma fisica, a non dare ascolto ad alcuni commenti dolorosi e ad andare avanti per la mia strada nonostante le difficoltà. Ricordo un episodio che per me è stato molto doloroso: un giorno la mia professoressa ha detto con fierezza che aveva perso diversi chili (pur essendo già magra) e molti miei compagni hanno detto anche loro di essere dimagriti. Ricordo le lacrime di rabbia e delusione che mi sono sgorgate dagli occhi perché io, invece, stavo perseguendo il mio obiettivo di mantenimento del peso. Ho dovuto stringere i denti ed andare avanti, respirando profondamente e non dando ascolto a quei pensieri che mi dicevano che ero enorme, ingorda e incapace.

Da quando mi sono ammalata di anoressia, mi sono resa conto di come, per chi parla, le parole spesso perdano il loro valore e vengano private del loro peso, usate come se niente fosse. Peso che viene invece percepito da chi le riceve e diventa un macigno. Saper di dover riprendere peso e mangiare con fatica quel cibo che prima evitavo come la peste ma che in quel momento era la mia medicina e intanto sentire dappertutto di persone che volevano perdere qualche chilo o che si vantavano di quanto peso avevano perso, di persone che stavano facendo la dieta per andare in spiaggia d’estate o di persone che dicevano a se stesse che dovevano essere più controllate se non volevano diventare orribilmente grasse era davvero faticoso.

“Ma come stai bene adesso che sei dimagrita”, “ma sai che sembri ingrassata?”, “ma mangi?” “stai mangiando troppo! Non riesci a controllarti?” Critiche di questo tipo o discorsi incentrati sul peso e sul cibo creano una spirale di pensieri da cui è difficile uscire. Guardarmi allo specchio e piangere perché mi faccio schifo è doloroso, vedermi grassa anche quando non lo sono, odiare ogni singolo centimetro del mio corpo e pensare di essere troppo brutta per essere amata. E impegnarmi con tutte le mie forze ad esercitare un controllo ossessivo sulla mia alimentazione con la finalità di modellare il mio corpo senza mai riuscire a raggiungere quell’ideale di bellezza illusorio. Impossibile da raggiungere perché inesistente.

Il percorso per uscire dal disturbo mi ha insegnato il valore dell’empatia: sapersi mettere nei panni dell’altro, pensare a che effetto possono fare le parole che si pronunciano e condividere il dolore di chi si ha di fronte, senza giudizi, senza commenti, senza parole buttate al vento. Mi sono resa conto di come questo mondo abbia bisogno di sensibilità e rispetto.

Purtroppo, per me che soffro di anoressia, anche i complimenti sono molto delicati: “stai meglio con qualche chilo in più” mi è stato detto più di una volta, ma per me significava che ero grassa. Piuttosto di commenti sulla mia forma fisica (anche se erano positivi), a me hanno aiutato i riconoscimenti su quello che è il mio carattere, la mia umanità, i miei punti di forza: mi hanno aiutata a riconoscere qualcosa che appartiene alla mia persona e non al disturbo, nutrendo in questo modo la mia anima. In particolare ricordo delle parole di una persona a me cara: “oggi ti vedo luminosa”. Me li ha fatti in un giorno in cui mi ero goduta la giornata, distanziandomi dai pensieri. Questo mi ha fatto capire che io esisto indipendentemente dal disturbo, e prendendo le distanze da esso io fiorisco.

Per me sono state importanti le persone che hanno saputo dare un valore e un peso alle loro parole, e le hanno sapute usare come un balsamo per le mie ferite. Io credo che se ognuno di noi si impegnasse a dar valore a ciò che dice, il mondo sarebbe un posto migliore. E penso che ognuno di noi possa fare la differenza nel suo piccolo. In fondo, “anche il mare è formato da gocce d’acqua”.